Racconti

di Paolo Cortesi

  • Un Racconto di Paolo Cortesi

    La Convocazione

    E' il terzo giorno che aspetto di vedere Kradar.
    No, non lo devo vedere: è lui che vuole vedere me. Il direttore Kradar non lo chiami tu. E' lui che ti convoca, e non lo fa direttamente ma attraverso la segretaria, una delle segretarie. Succede così: ad un'ora qualsiasi della giornata - cioè un'ora che non è per niente diversa da tutte quelle che l'hanno preceduta e da quelle che la seguiranno - il telefono squilla e dentro c'è la voce della segretaria. La voce delle segretarie (consentitemi questa digressione non oziosa) è diversa a seconda del ruolo della segretaria medesima, così le segretarie fresche di nomina, le segretarie novizie hanno toni cordiali, un ritmo pacato e chiaramente amichevole; ti chiamano per nome e hanno quella affabilità che di certo sperano gli sia riservata nel caso facessero un errore.
    Poi le segretarie diventano più esperte e sicure; la potenza del direttore -che loro vedono e ascoltano sempre e talvolta sfiorano - le investe come un calore, come una forza magnetica che, invisibile, grande, le attraversa in ogni fibra, le permea e così le trasforma. Dunque, non più una voce amichevole, ma uno scandire stretto e sicuro di disposizioni, in cui i verbi sono all'infinito, in cui i nomi non ci sono più ma ci sono i ruoli e le funzioni. Indicazioni spicce, forse non sempre chiare, ma che non consentono incertezze, perché comprendere al volo e interpretare correttamente è compito del bravo impiegato: gente sveglia, ci vuole qui, gente sveglia.
    E difatti la segretaria che, tre giorni fa mi convocò, fu rapida ed enigmatica, pareva l'oracolo. Ne dedussi che era una segretaria di altissimo livello che poteva addirittura, forse, vantare una certa familiarità con Kradar. E dunque successe che io ero al mio tavolo di lavoro, come accade tutti i giorni che Dio fa sulla terra. Ero lì, seduto, con tutti i liquidi, gli umori e le linfe che stagnavano e inacidivano nel corpo immobilizzato, ero lì torpido e squillò il telefono. Risposi: sì? e di là si udì un crepitio basso e continuo, un suono che forse era un'interferenza o forse era il respiro della segretaria, forse un suo borbottare.
    "Stia pronto ad essere convocato dal dottor Kradar" fece la voce segretariale, con una certa stizza, come se mi rivelasse una mia antica mancanza appena scoperta.
    Fui sorpreso e stordito: non si è convocati da Kradar senza un ben valido motivo, motivo importante dico, roba grossa. Kradar non ha niente a che fare con noi impiegati di basso livello; noi non abbiamo nulla che possa arrivare direttamente a lui, mai.
    Mi prese subito una sensazione di timore, provai la vertigine di una altezza enorme, disumana, da cui niente al mondo mi avrebbe difeso.
    Mi sforzai di avere una voce chiara e sicura: "Il dottore mi desidera?"
    La segretaria ebbe un attimo di esitazione, poi disse:
    "No. Il dottor Kradar l'ha convocata."
    "Vado subito..." esclamai con l'affanno; la segretaria ebbe un tono ancora più ostile:
    "No. Si prepari. Verrà convocato da una successiva telefonata". Io stavo gemendo "ah va bene", quando la comunicazione si interruppe.
    Posai il ricevitore; dovevo avere una faccia da annegato, tanto che il mio collega A.Z. mi domandò allargando gli occhi come se cercasse qualcosa sul mio viso: "Tutto bene? chi era?"
    La saliva mi si era ficcata in gola, non scendeva: mi accade quando sono molto spaventato (mi succede anche di arrossire così violentemente che mi sento gli zigomi bruciare). Risposi: "No niente..." e lui, accostandosi un po' sulla poltroncina con le rotelle: "Come niente? pare che hai visto un fantasma"
    Buttai fuori le parole come se sputassi un veleno: "Mi ha convocato Kradar".
    A.Z. indietreggiò un poco, spingendo con i tacchi la poltroncina a rotelle; domandò: "E cosa vuole?"; aveva la voce così allarmata che sembrava temere di essere il prossimo convocato. Risposi: "La segretaria non me l'ha detto; mi ha detto solo di prepararmi".
    A.Z. disse a e basta, e quella vocale riempì tutta la stanza, vi restò in mezzo, sospesa immobile e definitiva, come una grossa sfera di vetro. Riprendemmo il lavoro. Ecco il consueto ticchettare dei tasti del computer, ma non era rassicurante. Dopo qualche minuto, A.Z. disse: "Ma cosa pensi che voglia da te Kradar?" Aveva il tono di chi non aveva smesso un istante di pensare a quella misteriosa chiamata.
    Io volevo fingermi sicuro, risposi guardando il video del pc (su cui non distinguevo niente, niente: solo un fumo lucente di linee colorate, strisce di parole che sembravano file di formiche nere): "Ma non saprei... forse... forse, non so, un parere..."
    A.Z. ebbe un ghigno; lì per lì ci restai male, perché lo credevo un amico e un amico ti sostiene anche nelle avversità; poi invece ho scoperto che gli amici sono come tutti gli altri e se non godono delle tue disgrazie, di certo sono felicissimi che quella porzione di male che ti è caduta addosso non è toccata a loro.
    A.Z., dunque, ebbe un sorriso cattivo e fece: "Sì, un parere... da noi... Kradar che chiede un parere a un impiegato...."
    Sapevo che era vero, aveva ragione: Kradar non chiede pareri a noi impiegati. Kradar spesso non ci ritiene neppure capaci di realizzare ciò che egli decide e programma. Un parere, figuriamoci!
    A.Z. continuò, inseguendo il groviglio malato dei suoi pensieri: "No no, per me ti chiederà cosa sai di F.T."
    Confuso com'ero, non ricordavo niente di F.T.
    "Cosa ha fatto F.T.? cos'è successo?"
    A.Z. cominciava a godere di tutta la dolcissima pienezza calda della sua sensazione di estraneità alla brutta faccenda; ora si era rilassato ed era d'ottimo umore.
    "Ma sì! F.T., quello che fu beccato mentre rubava un cellulare dal bagno delle donne"
    In un istante, cercai di ricordare tutto ciò che sapevo di F.T., soprattutto mi sforzavo di collocare me in quella storia: dov'ero cosa facevo cos'avevo in mano con chi ero quando avvenne l'impiccio. Un alibi, un alibi presto!, cercavo un alibi. Restai così a occhi sbarrati, rivolti verso la luminosità invariabile dello schermo, eppure non battevo le palpebre. I pensieri erano così affollati e urgenti che bisbigliai: "Io ero già uscito d'ufficio....", e solo udendo la mia voce mi accorsi di parlare; mi sembrò di avere un altro dentro di me e questo mi fece paura.

     

    Da diversi giorni, mi sveglio presto. Il primo pensiero che esce dal nero della mente è il conteggio dei giorni: non ho ancora compreso se sono steso sul dorso o sulla pancia, non so dove ho le braccia, ma già penso: "Sono sei giorni che aspetto la convocazione".
    Mi alzo; sono stanco come se tutti i sogni terribili che certamente ho fatto ma non ricordo mi fossero caduti addosso come pietre.
    A mia moglie non ho detto niente; voglio essere forte e non porto a casa i miei problemi d'ufficio; ma qualcosa è successo anche tra noi, perché lei mi guarda sospesa, dubbiosa: capisce che non sono sereno, ma la mia allegria ostentata, la mia voce un po' più alta del solito la rassicurano, o piuttosto lei capisce che voglio rassicurarla e non azzarda alcuna domanda. Mi guarda, non capisce la mia inutile loquacità, parla poco.
    Oggi, sesto giorno d'attesa, ho avuto un'idea: e se chiedessi ad una segretaria cosa Kradar vuole da me?
    A.Z., a cui ho esposto il mio proposito mentre prendevamo il caffè dal distributore a monete, mi ha detto di lasciar perdere, e mi ha elencato almeno tre motivi validi per non chiedere niente a nessuno. Poi ha chiuso con il proverbio "non svegliare il can che dorme".
    Ha usato gli stessi argomenti che avrei usato io per dissuadere lui da questa folle iniziativa. Ho pensato così che lo stato di impiegato di bassa categoria è veramente una condizione fisiologica prima ancora che lavorativa: siamo come animali della stessa razza: vogliamo le stesse cose, temiamo le stesse cose, pensiamo nel medesimo modo.
    Oggi, sesto giorno d'attesa, vedo che si è sparsa in tutto l'ufficio la notizia della mia convocazione. Per i colleghi, anche per quelli che in vent'anni non mi hanno mai parlato, io sono quello convocato da Kradar, una qualifica terribile e fascinatrice, come potrebbe essere quello che ha ammazzato un serpente a mani nude, oppure quello che è stato investito da un treno e non è morto.
    I colleghi, anche gente degli altri piani, mi scagliano occhiate veloci, oblique, girano la testa appena vedono che li ho scorti. Perfino qualche funzionario (li riconosci da dopobarba e profumi alla moda che si sentono in dovere di portare) perfino qualche funzionario, dicevo, mi osserva incuriosito, e credo si domandi cosa ho combinato perché Kradar sia venuto a conoscenza di me.

     

    All'ottavo giorno di attesa, ho deciso di scrivere una lettera a Kradar. Mi sembra la cosa migliore. Telefonare, non si può: troppo rischioso, troppo arrogante. Mi è stato detto, no?, cosa devo fare: si prepari, si prepari alla convocazione, e basta. Dunque devo aspettare. Ma un pezzo di carta, un sottilissimo foglio leggero di carta non può offendere nessuno, e la stessa levità candida della sua materia è una sana metafora della mia anima impiegatizia: cedevole, tenue, fragile...
    Non scrivo al computer perché penserebbero subito che ho usato quello dell'ufficio, che è peculato d'uso e ti becchi da tre a dieci anni. Allora scrivo a mano, con la calligrafia bella chiara, ordinata, ben leggibile, con tutti gli spazi calcolati, le maiuscole accurate. Inizio a scrivere:
    Pregiatissimo Signor Direttore Generale Dottor Kradar,
    otto giorni fa, e precisamente il mercoledì 18 maggio 2011, una delle sue stimatissime segretarie mi comunicò telefonicamente la Sua riverita intenzione di conferire con me
    mi fermo: avverto, con un gelo nello stomaco, tutta l'inutilità di queste parole, la loro stupida inutilità. Penso che Kradar non vedrà mai questa lettera, che verrà fermata e letta dalla sua segreteria, e nessuna segretaria importuna Kradar per le smanie di un impiegato in attesa della convocazione.
    Mi stupisco di avere avuto idea di scrivere a Kradar.

     

    Al dodicesimo giorno d'attesa, mi convinco che non verrò mai più convocato.
    E' passato troppo tempo, mi dico, e si sono dimenticati di me. Del resto, Kradar comunicherebbe un cambio di programma solo ad un personaggio di qualche importanza, mettiamo un notaio, un primario d'ospedale, un colonnello della finanza, un vescovo. Per gli impiegati non perde tempo, non ordina alla segretaria: "chiami e disdica", o "chiami e sposti l'appuntamento" (poi sarà cura della segretaria fare le scuse per conto di Kradar, il quale in verità non chiede mai scusa a nessuno).
    Mi spiego tutto: forse Kradar mi ha scambiato per un altro, forse ha trovato altrove le informazioni che cercava; la mia convocazione non è più necessaria e io non lo so, eppure tutto è finito, e la mia pena è inutile, mi angustio per niente perché non vedrò mai Kradar, non sentirò mai la sua voce.
    Confido la mia ipotesi ad A.Z.:
    -Per me, quello non mi chiama più. Sono passati dodici giorni, dodici ti dico. Ti pare che mi possa chiamare dopo dodici giorni? ma quello ha altro a cui pensare, quello non mi cerca più.-
    Ho la voce così franca e sicura che A.Z. ne è un po' indispettito. Tace; annuisce un poco ma tace. Dopo, mi fa:
    -Però guarda che ti può sempre convocare.-
    Silenzio. Aspetta qualche istante, per saggiare l'effetto su di me di queste sue parole. Poi riprende:
    -Kradar fa quello che gli pare, e se ti vuole convocare fra un mese, ti convoca fra un mese. Se gli va, pure fra un anno. Mica ha la scadenza, mica gli fanno fretta, a lui.-
    Mi sento una gran fatica addosso, sulle braccia, sulle spalle, sul petto, come se mi fosse colata una massa di colla. Mi sentivo al sicuro, e mi ritrovo inerme. Tento una difesa, sono poco convinto:
    -Ma no, ma no... ma che anno... ma che dici? Un direttore...-
    A.Z. mi interrompe crudelmente:
    -Ti ricordi B.U.? Lo ricordi? B.U., dell'ufficio forniture? B.U. venne chiamato dalle ferie, lo fecero rientrare dalle ferie perché Kradar voleva vederlo.-
    -Sì ma le ferie sono un'altra cosa...- cincischio le parole come all'esame di maturità.
    -Era in ferie, era andato non so al mare, ai laghi, con tutta la famiglia. Telefonata e zac! via a casa, e la mattina dopo al lavoro, da Kradar, bello a posto dritto in piedi sull'attenti.-
    -Ma è un'altra cosa...-
    -No caro, è la stessa cosa. Kradar dice e tu fai. Fine. Gliene frega niente, a lui, del tuo calendario: dodici giorni, embé?-
    Mi alzo; pare che voglia scappare da A.Z. e dalla sua furia di parole, e forse è proprio così: voglio scappare. Vado alla finestra. Davanti a me, sotto di me, la città è una distesa fitta di cubi e parallelepipedi separati da varchi rettilinei e colori che arriva fino all'orizzonte, su cui è posato un vapore grosso, grigio, che vibra di una luce polverosa, opaca. Come il fumo lento e vastissimo di un incendio che non si vede, che si confonde con il cielo.

     

    E' il ventesimo giorno di attesa.
    Al mattino, a colazione, mia moglie ha tentato di sapere qualcosa:
    -Ma c'è qualcosa che non va?-
    Io sorrido, anzi rido proprio:
    -Cosa? Cosa? perché dici così? va bene, va tutto bene.-
    Poi entrambi stiamo zitti; io sorrido alla tazza di caffè, lei guarda un po' la mia fronte chinata e un po' le mie dita che muovono il cucchiaino.
    -Sei così strano...-
    La devo fermare subito, penso, devo fermarla prima che srotoli tutto il repertorio di domande, osservazioni, sillogismi, malinconie, ubbie.
    -Ma no! ma cosa dici? anzi: se tutto va bene ci sarà una bella sorpresa...-
    Le parole mi suonano agli orecchi come se le ascoltassi dalla radio.
    -Kradar mi vuole vedere e...-
    Mia moglie sbarra gli occhi, accosta un po' la testa alla mia:
    -Kradar?- esclama.
    -Sì, lui. Beh, che c'è? E' un essere umano, mica un diavolo!-
    cerco di sorridere, ma sento che la mia faccia è triste perché sto mentendo e la mia bugia miserabile è la prova della mia paura, della mia viltà.
    -Cosa vuole da te?- l'affanno, l'apprensione nella voce di mia moglie mi esasperano; mi alzo brusco da tavola, poi cerco di essere ancora allegro:
    -Mi vuole dare l'aumento!- dico forte, quasi grido e devo sembrarle matto -Mi vuole dare l'aumento! Contenta? Contenta? Eh?!-
    Esco di casa. Mentre entro in ascensore, vedo lei che apre la porta e si affaccia un poco, appare solo una striscia di corpo poi rientra.
    Arrivo al grattacielo, dove ha sede l'ufficio. Non c'è nessuno. Nessuno. Parcheggio vuoto, com'è possibile? Non c'è il portinaio, non ci sono i fattorini all'ingresso. Nessuno agli ascensori e tutto l'edificio è silenzioso. I rumori della città si infrangono contro i pesanti cristalli dell'esterno, e lì dentro non si percepisce nessun rumore. Questo silenzio completo è come una cosa che riempie lo spazio, lo si avverte tanto massiccio che pare quasi schiacciare a terra, spingere contro le pareti. Non è solo assenza di suono, ma la dilatazione enorme di una forza invisibile che assorbe e disperde.
    Prendo l'ascensore e salgo al sesto piano, il mio, come faccio da vent'anni. Anche qui non c'è nessuno. Computer spenti, fotocopiatrici spente, fax spenti e nessun telefono squilla. Mi domando se sia per caso un giorno festivo, ma so che non lo è. Penso a qualche sciopero, ma in vent'anni di lavoro non ne ho mai visto uno, lì, e so che nessuno, lì, sciopera.
    Cosa è successo? Dove sono tutti? Cammino preoccupato, ma mi sento anche un po' contento, perché almeno quel giorno sarà diverso da tutti quelli passati lì da vent'anni. Entro in stanze mai viste, percorro corridoi che non so dove portano, vedo sale sconosciute che danno su cortili che ignoravo.
    Arrivo alla porta di un ascensore rivestita in radica di noce, con una lampada di vetro smerigliato in alto e con il pulsante d'ottone dorato che splende come una medaglia. E' un solo bottone, ha una sola scritta: DIRETTORE GENERALE.
    Spingo il pulsante. Non so perché lo faccio, non so cosa farò da lì ad un istante, eppure lo premo e così forte che pare sia stanco di aspettare l'ascensore.
    Ascolto un frusciare metallico di cavi. L'ascensore arriva e la porta si apre lentamente, maestosa, con un soffio quasi umano; la cabina è tutta uno sfolgorio di specchi e di cromature. In terra c'è una moquette rossa alta e vaporosa.
    Spingo l'unico tasto del pannello, cioè l'unica meta di questo ascensore splendente. La salita è morbida, sembra che ci sia portato in braccio, al piano della dirigenza. Un campana invisibile dà un suono a due note, la porta metallica si apre, esco e mi trovo al mezzo di un corridoio lungo, non molto largo ma lunghissimo. C'è profumo di lavanda. Anche lì non c'è nessuno; le stanze che si aprono sul corridoio sono deserte; gli oggetti sono in ordine e tutto ha l'aspetto di un posto in cui nessuno tornerà più.
    Vedo una macchia verde al capo del corridoio: sono imponenti piante di ficus dalle foglie polpose, lucide e scure. In mezzo a quel verde, c'è la porta e accanto ad essa c'è la targhetta
    DIRETTORE GENERALE.
    Ho la certezza che anche quella stanza sia vuota, come tutto il palazzo, e allora entro. Voglio entrare. Vedrò, mi dico, l'ufficio di Kradar, mi aspetto di vedere qualcosa di speciale, di fantastico. Ci sarà anche il frigobar, penso mentre abbasso la maniglia della porta. Apro.
    Al capo opposto all'ingresso, vedo una scrivania lunga quasi un lato della stanza, e alla scrivania c'è un uomo che è spaventato quanto me da questo incontro imprevisto. Il mio stupore è così forte che non vedo nient'altro nella stanza: solo la scrivania grandiosa, una testa piccola che si alza dalle carte e due occhi bianchi che mi guardano immobili.
    -Chi è?- domanda l'uomo alla scrivania. Per un istante penso di scappare; in un lampo penso che Kradar non ha potuto vedermi bene e non potrà riconoscermi fra i trecentonove impiegati suoi. Ma avanzo, chiudo la porta con delicatezza (come se riservare ad essa tanta attenzione possa farmi apprezzare da Kradar) e faccio tre passi in avanti.
    -Chiedo scusa,- sussurro con il fiatone -chiedo scusa, non immaginavo che...-
    L'uomo, ancora lontano una decina di passi da me, muove un poco una mano, e mi fa:
    -Venga. Si accomodi. Venga qua.-
    Mi indica una poltrona. Ci arrivo e mi siedo, la poltrona è grande e morbida, ma io non sono comodo perché non so come si sta su poltrone così importanti e impegnative.
    -Lei chi è, scusi?.- chiede l'uomo. E' piccolo, direi che è più basso di me; ha la testa piccola, occhi grandi e pallidi, pochi capelli verso la nuca. Noto subito una natta sulla fronte, e mi sforzo di non fissarla.
    -Chiedo scusa.- dico - Io non sapevo che ella fosse in ufficio, dottor Kradar. Ho visto che tutti i piani del palazzo sono vuoti così...-
    L'uomo mi guarda incuriosito e chiede:-
    -Come ha detto, scusi?-
    -Ho detto che non immaginavo di trovarla qui.-
    -No. Come mi ha chiamato?-
    Resto incerto. Poi mi affretto:
    -Dottor Kradar.- dico così e intanto penso se ho sbagliato il titolo: forse è commendatore e ci tiene; forse è professore. Dove ho sbagliato?
    L'omino posa le mani, una sull'altra, sulla scrivania.
    -E chi è Kradar?- dice.
    Se mi avesse sputato in faccia, sarei stato meno sbigottito. Muovo le labbra ma non dico niente. E lui:
    -Chi è Kradar, scusi?-
    Vorrei asciugarmi il sudore, ma resto fermo sulla poltrona. Dico:
    -Ma... il dottor Kradar è lei...-
    -Io?-
    -Lei è il dottor Kradar. Il direttore generale di questa ditta.-
    Nel caos dei miei pensieri arrivo a chiedermi se non sia una sorta di test, un esame psicologico per i dipendenti.
    L'ometto pare sorridere.
    -Kradar? Io?- domanda.
    -Sì dottore. Lavoro in questa ditta da vent'anni e lei da vent'anni ne è il direttore generale.- abbozzo un sorriso, invero molto composto e rispettoso, perché penso che forse Kradar è in vena di scherzi.
    L'uomo smette di sorridere. Mi fissa severamente; sospetta che lo prenda in giro? o che sono un pazzo?
    Parla con calma, ogni parola si stacca sonora e resta a galleggiare nell'aria:
    -Io sono il dottor Nebron. Sono il direttore generale di questa ditta da vent'anni e non ho mai sentito nominare questo Kradar. Dunque, cosa mi sta dicendo?-
    D'istinto guardo fuori dalla grande finestra, quasi implorando un soccorso dall'esterno. Fuori c'è la grande città, palazzi giganteschi si stringono uno all'altro come concrezioni minerali; l'orizzonte è il profilo puntuto e difforme degli edifici e il cielo è saturo di una lenta luce senza colore.